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La sala da pranzo dei fratelli Fiammetta, dove man-giavano ogni giorno, era rimasta quella di cinquan-t’anni prima, esattamente come i loro genitori,novelli sposi, l’avevano disposta e arredata. La tintadelle pareti era quanto di più vicino ci potesse esse-re al colore del guscio di un vecchio uovo dimenti-cato al caldo. Il pavimento era formato da lastrescure di finto marmo e non brillava certo per viva-cità.
Piccole cornici di legno che racchiudevano banalistampe di capitali europee, e vecchie fotografie diparenti morti chissà quanti anni prima, erano dispo-ste senza nessun ordine. Il posto d’onore nella stan-za era riservato a un vetusto pianoforte a mezzacoda e a un divano di pelle logora, su cui Arturodopo una doccia rigenerante, era impegnato agodersi il sabato sera avvolto nel suo accappatoio.
Stringeva una bottiglia di birra cinese tra le mani eteneva lo sguardo incollato al televisore. La voce diTeresa lo ridestò da quel fissare assorto.
«Roba da non credere. Tutti i giorni ci si spezza laschiena come bestie per portare a casa la pagnotta equesti politici spostano l’età pensionabile di anno inanno. Se fossi io a decidere… non ce ne sarebbe piùper nessuno.» «Teresa, ti prego, non vedi che sto cercando diseguire questa trasmissione?»«Seguire? Ma se è un documentario sui morti. Micaun film. E poi l’avrai già visto almeno dieci volte.»«Non è un documentario sui morti. E’ uno specifi-co reportage su degli scavi egizi che hanno riporta-to alla luce tombe di oltre quattromila anni. Ma chevuoi capirne tu?»Fece un gesto con la mano come a voler cacciareuna mosca fastidiosa e bevve una lungo sorso dibirra.
«Ne capisco molto di più di quanto tu creda. Tuttiquei soldi per recuperare cose a cui nessuno fregapiù niente, invece di essere utilizzati per costruirenuovi ospedali e aiutare la povera gente. Italia,Africa o America, questi maledetti politici sonouguali in tutti i Paesi. Non dirmi che neanche que-sta sera vuoi mangiare.»Con uno sforzo che gli parve enorme si sollevò e simise a sedere al vecchio tavolo.
Afferrò la forchetta e portò alla bocca le uova senzamai mollare la presa sulla bottiglia di birra.
Alternava un boccone con un sorso per rendere ilsapore del cibo più tollerabile.
Alcune forchettate dopo, durante la pubblicità,involontariamente lo sguardo scivolò sulla sorella.
«Santo cielo, ma cosa ti è successo?»Arturo scoppiò a ridere così forte da non riuscire atenere gli occhi aperti.
«Sembri vestita come una suora e truccata comeuna battona» aggiunse.
«Si dà il caso che questo vestito nero costi più diuno stipendio e anche se non sono tenuta a dartispiegazioni, ho solo un leggero filo di trucco perchéquesta sera esco.»«Da dove? Dalla mia vita?» Altra grassa risata.
«No, caro. Non ti regalerò questa soddisfazionecosì facilmente. Esco con alcune colleghe perfesteggiare il compleanno di una di loro. Non aspet-tarmi alzato.»«Non c’è dubbio, ma stai attenta perché c’è unassassino in giro per la città e non vorrei che fosseingolosito da un bocconcino così prelibato.»La donna, grazie all’eccitazione, dopo tanto tempo,del passare una serata fuori con qualcuno, trovò laforza di tenere testa all’ironia del fratello. «Forse non te lo ricordi, ma anni fa avevo diversispasimanti e papà controllava sempre con chi usci-vo. Se riscuotevo un certo successo allora, non vedoperché non dovrebbe essere così pure adesso.»Anche se la trasmissione era ricominciata Arturonon riuscì a tacere.
«Te lo dico io il perché. Perché il successo si è tra-sformato in cesso» seguì una terza spudorata risatache echeggiò per alcuni secondi nella stanza.
Teresa si alzò di scatto dalla sedia decisa a noncedere.
«Può anche essere come dici tu, ma almeno io ho una vita e degli amici, mentre tu non hai niente, aparte il tuo lavoro e una schifosa birra da due soldi.
Anzi, tre soldi, visto quel che costa.»«A proposito, Teresa, ne hai comprata dell’altravero? Non è che resto senza e succede come la scor-sa settimana che mi sono dovuto vestire per andareall’Esselunga?»Arturo si era accorto di avere esagerato e cercava diricomporre il consueto stupido screzio, ma senzadarlo a vedere. In fin dei conti, che lei uscisse e cheavesse dei rapporti con altre persone era giusto edera ciò che anche lui voleva: avere la casa a suadisposizione, come una volta, e soprattutto il con-trollo assoluto del suo prezioso silenzio era tutto ciòche poteva chiedere a quella convivenza forzata.
«Certo che c’è la birra. Come ci sono le camicie sti-rate nell’armadio e le lenzuola pulite nel letto. Latua cameriera personale ti serve come un sultano. Infondo è solo questo che sono per te, vero?»«Dài Teresa, non possiamo sempre litigare per ognicosa, tu sei una rompiballe petulante e io non homai pazienza, però adesso piantiamola perché stia-mo perdendo tempo tutt’e due.»Intanto la voce narrante del documentario cheArturo stava tentando di ascoltare, proseguiva nellaspiegazione. “Ora possiamo vedere come i due archeologi, scor-tati da un gruppo di quattro aiutanti egiziani, stan-no portando alla luce l’antico baule.” «E per piacere, domani mattina vedi di non farecasino con quel tuo passo da elefante, perché vorreidormire.»Teresa si era spostata verso la specchiera in ingres-so per controllare il trucco.
«Sarò leggera come una piuma, non si breoccubibadrone.»“Ecco i portantini che appoggiano delicatamente ilbaule a terra. Girare queste immagini non è statofacile anche a causa del folto gruppo di curiosi chesi è formato intorno alla zona degli scavi. Uno deiresponsabili della spedizione è riuscito a infilareuna sottile barra d’acciaio in una piccola fessuranel coperchio del baule.”Per un attimo la suspense di Arturo fu interrotta daltrillo del telefono e dalla voce di Teresa che rispon-deva. In un sorso solo, senza staccare gli occhi dalloschermo, finì la birra.
“Ecco che il coperchio comincia a sollevarsi, men-tre i due uomini posizionati ai lati imbracano il sar-cofago con pesanti funi per evitare che si spezzi.
Ricordiamo che solo il coperchio pesa diverse deci-ne di chili.”
Forti vibrazioni dal pavimento gli annunciarono ilritorno della sorella nella stanza.
«Tieni ‘sto coso, è per te. Io me ne vado e nonlasciare le chiavi nella serratura altrimenti non rie-sco ad entrare quando torno.» Arturo afferrò il tele- fono, sempre senza distogliere l’attenzione dellativù, e se lo portò all’orecchio.
“Dopo tanto attendere ecco che il baule viene aper-to. Gli archeologi, con estrema cautela, comincianoa tirare fuori il contenuto. Come potete vedere sitratta di tante piccole scatole avvolte in tessuti chein origine dovevano essere meravigliosi a giudica-re dai colori e dai ricami.”«Pronto, Fiammetta mi sente?» «Sì ispettore, la sento» lo riconobbe immediata-mente, dalla prima sillaba che pronunciò.
«Mi scusi se la disturbo a casa di sabato sera, ma sitratta di una cosa importante.»Arturo sentiva la voce molto lontana e pensò cheprobabilmente stesse chiamando dall’auto.
«No, nessun disturbo, mi dica.»“Le scatole ormai liberate dai teli sono state dispo-ste tutte in fila su questo grande telo. Il sovrinten-dente per il governo egiziano è attentissimo e con-trolla ogni movimento dei preziosi reperti.”«Questo pomeriggio mi hanno telefonato dal labo-ratorio per comunicarmi l’esito di altre analisi chesono state fatte sulle vittime. L’esame tossicologicoha dato esito positivo sull’uomo precipitato dallafinestra e sulla donna trovata con la testa fracassa-ta: hanno assunto una sostanza allucinogena.»“Finalmente il momento tanto atteso è arrivato, madalla profonda delusione sui volti degli elementi delgruppo possiamo capire che in quei contenitori non vi è altro che polvere.” «In un secondo tempo sono arrivati gli esiti di altreanalisi più specifiche, e si è potuto stabilire anche iltipo di droga. Si tratta di dimetiltriptamina, piùcomunemente conosciuta come Dtm, una dellesostanze psichedeliche più potenti, seconda solo alSalvinorin A, la salvia Divinorum. Mi è stato poispiegato che per via della difficile reperibilità deglielementi necessari per fabbricarla, per il momentoquesta robaccia non ha trovato molta fortuna sulmercato degli sballati. Fiammetta, è sempre inlinea?»«Certo, continui pure. Sto guardando una cosa allatelevisione ma ascolto ogni sua parola.»L’ispettore ormai si era quasi abituato alle stranez-ze di Arturo.
«Ok. C’è anche un’altra grossa novità.»“L’attenzione ora si è spostata sull’unica scatolarimasta, in un primo tempo accantonata perché incondizioni peggiori delle altre.
L’onore e l’onere di aprirla viene lasciato all’an-ziano archeologo John Burbank che ha seguito ognifase degli scavi. La differenza tra il successo e lasconfitta di tutta questa impresa sta dentro que-st’ultima scatola.”
«Non ci crederà, ma grazie all’uso di un nuovomacchinario che utilizza vapori speciali e cose delgenere, è stata scoperta un’altra cosa importante sulpezzo di carta ritrovato a fianco della ragazza ucci- sa nel bagagliaio dell’auto. Anche lì erano statescritte le lettere AF, che evidentemente in un secon-do tempo sono state cancellate. Se non fosse statoper la tecnologia che abbiamo a disposizione non loavremmo mai scoperto.»«Fantastico» rispose Arturo.
“Finalmente l’espressione dell’uomo scaccia ognipaura. Ha aperto completamente la scatola e l’alzain aria come un trofeo. Ecco che ne estrae il conte-nuto: sono tanti piccoli oggetti colorati.”«Voglio parlare chiaro con lei, Fiammetta. Oramainon c’è più il minimo dubbio che ci sia un legametra questi delitti e il suo giornale. Ovviamente nonho ancora la certezza che quelle lettere corrisponda-no alle sue iniziali, ma per il momento è tutto quel-lo che ho e questo fa di lei il mio più prezioso allea-to.»“Si tratta di minuscoli manufatti, di migliaia dianni fa, che raffigurano piccoli insetti, tante volterappresentati in disegni o geroglifici, ma che fisica-mente non sono mai stati ritrovati in nessuno scavo.
Queste immagini ci mostrano una scoperta unica.”
Arturo sentì qualcosa scattare dentro la sua testa.
Per un istante dovette concentrarsi per capire inquale mano stringeva la birra e in quale altra il tele-fono. Scattò in piedi con tale velocità da lanciare lasedia ad alcuni metri da lui.
«Cazzo, ci sono arrivato, Manfredi. Ci sono arriva-to.» «Mi fa piacere, quindi capirà che ho bisogno diveder…»«Mi riferisco a un’altra cosa.»«Precisamente?» «Ho capito cosa sono quegli oggetti. L’aspetto qui,faccia presto.» Venti minuti dopo erano seduti al vecchio tavolo inlegno di noce su cui ancora c’erano i resti della cenamezza consumata.
Arturo aveva aperto un’altra birra e preparato uncaffè per l’ospite.
La serata era molto calda e nonostante fossero ora-mai le ventidue, dalle finestre aperte non entrava unalito di vento. «Davvero non vuole che porti un po’ di caffè al suocollega che sta aspettando in macchina?»«No, non si preoccupi, c’ha vent’anni quello epotrebbe stare tre giorni e tre notti di fila senza dor-mire. Mica come noi cinquantenni che ogni due oredobbiamo andare a pisciare.»Mentre diceva questo aveva cominciato il solito ritodella pulizia degli occhiali con il fazzoletto e Arturopensò che l’ispettore fosse ancora giovane per averegià simili problemi di prostata. Involontariamentefece una leggera smorfia di sorpresa, il poliziotto sene accorse subito e incominciò a squadrarlo dall’al-to al basso.
«Certo Fiammetta, certo. Ho capito che lei non ha disturbi di questo tipo, ma mi permetta di racco-mandarle di andarci piano con quella roba d’impor-tazione o vedrà che tra poco le sue vie urinariesomiglieranno a un pallone.»Arturo sentì immediatamente una fitta forte inmezzo alle gambe accompagnata da una impellentenecessità di urinare. Ma per orgoglio e per coeren-za avrebbe resistito fino all’ultimo prima di cederee andare in bagno.
«Allora, mi vuole spiegare che cosa crede di avercapito?»Prima di cominciare ingollò un altro generoso sorsodi birra a dimostrazione della sua temerarietà.
«Me ne stavo qui a mangiare con mia sorella e aguardare la tivù quando…»Il poliziotto lo interruppe subito.
«Dov’è adesso?»«Dov’è cosa?»«Sua sorella. E’ qui?»Gli parve una domanda molto strana.
«Ah, no. E’ uscita con delle amiche.»«Quindi in questo appartamento vivete soltanto voidue?»Manfredi sembrò osservare bene l’ambiente per laprima volta da quando era entrato.
«E’ la casa dei nostri genitori. Dopo il divorzioTeresa non aveva un altro posto dove andare, così ètornata qui.»«E per lei è finita la pacchia.» «E per me è finita la pacchia. Posso continuare?»«Certo, mi scusi, prosegua pure.»«Bene. Allora dicevo… stavo guardando alla televi-sione un documentario dove dei ricercatori britanni-ci sono riusciti a riportare alla luce uno specie dibaule con…»«E quelli chi sono?»Il dito dell’ispettore stava indicando delle fotografiesul pianoforte.
Arturo cominciava a sentire un prurito lungo lebraccia e dietro la testa. In fondo era lui che stavafacendo un favore alla polizia, perché doveva esse-re così estenuante?Per il momento decise di assecondare la curiositàtipica del detective.
«Sono alcuni vecchi parenti. Non so nemmeno beneio di chi si tratti.»«E allora perché conserva ancora le loro fotogra-fie?»«Non c’è un vero motivo. Le ha messe lì mia madresecoli fa e mai nessuno le ha tolte.»«Sua madre è ancora viva?»«No, santo cielo, è morta da parecchi anni ormai.
Ma vuole sentire cosa ho da dirle o non gliene fregapiù niente?»«Ovvio Fiammetta, ovvio. Mi perdoni se l’ho inter-rotta nuovamente. Ha tutta la mia attenzione. Erarimasto al ritrovamento di un baule.»Detto questo portò l’indice a sostenersi un sopracci- glio.
«E all’interno di questo millenario baule hanno tro-vato degli oggetti, dalle forme più diverse, comepiccoli dischi e insetti di pietra. Quel documentariolo avevo già visto altre volte, ma dopo la nostrachiacchierata dell’altro ieri, nel mio ufficio, mi si èaccesa come una lampadina. O forse sarebbemeglio dire un lampione.»Un po’ per il caldo e un po’ per l’alcol, Arturo sen-tiva il sudore colargli lungo la schiena. Si asciugò lafronte con una manica, finì la birra in un sol colpoe alzatosi si diresse verso un piccolo tavolino chepassava inosservato perché coperto alla vista daldivano. Prese un libro dalla copertina gialla che viera appoggiato sopra.
Tornò a sedersi e cominciò a sfogliare le paginevelocemente.
«Dopo la sua telefonata sono corso in camera mia eho recuperato questo manuale che posseggo daanni, ma che avevo quasi dimenticato.»Dopo aver fatto scorrere circa metà del volume, loappoggiò sulla tovaglia macchiata.
«Ha con sé la fotografia che mi ha mostrato l’altrogiorno?»Manfredi infilò la mano nella tasca-marsupio edestrasse la busta di plastica contenente la prova.
Arturo la prese e l’appoggiò a fianco del libro.
«Adesso guardi qui.»Indicò un’illustrazione. Il poliziotto si rimise gli occhiali e incuriosito si chinò per vedere meglio.
In un primo momento non riuscì a capire di checosa si trattasse, ma quando allungò la mano e ruotòil libro per avere una visuale corretta, sobbalzò sullasedia. L’immagine che Arturo gli stava mostrando eraquasi identica a quella della foto che ritraeva ilpezzo di legno trovato nella mano di MartinaCalandri.
«Che mi venga una sincope fulminante.»«Sì, è proprio quello a cui ho pensato anche io,ispettore.»«Ma che cavolo è allora?»Arturo rigirò il volume verso di sé e ricominciò laspiegazione.
«Come vede, gli oggetti non sono proprio identici.
Questo nel libro tanto per cominciare è di un colo-re più scuro, tipo pietra lavica, mentre il suo ricor-da più il legno stagionato. Anche le forme non sonoperfettamente uguali. Le due punte terminali diquello che avete trovato voi sono più lunghe, piùaffusolate, mentre queste sono nettamente piùsmorzate e arrotondante.»«Perdio Fiammetta, mi vuol dire che cazzo sonoquesti cosi?»Arturo riafferrò la bottiglia di birra ma si ricordòche era vuota. Con la voce che tradiva un po’ didelusione per questo, rispose alla domanda.
«Dovremo fare altre ricerche ma sono quasi sicuro che il suo oggetto del mistero sia un cavallo.»«Un cavallo? Ma che diavolo sta dicendo?»«Sì, ma non un cavallo qualunque, bensì un pezzodegli scacchi del quattordicesimo secolo. E’ sicurodi non volere una birra? E’ leggera, sa?»«Mi sta prendendo per il culo?»«Non mi permetterei mai. Io ho rispetto di lei primoperché sta lavorando, secondo perché fa parte delleforze dell’ordine, e io ho rispetto delle forze dell’or-dine.»L’espressione di Manfredi si rilassò per un istante.
«Guardi questo invece, proprio qui, in questa pagi-na. Sembra una piramide con una piccola sfera incima. La riconosce?»L’ispettore non credeva ai sui occhi. Pensò alladecina di competenti cervelli che si lambiccavanoda giorni senza ottenere praticamente nulla e questostrano personaggio aveva risolto il mistero di cosafossero quei maledetti affari guardando la televisio-ne.
«Ha la stessa forma dell’oggetto disegnato sul ven-tre dell’uomo caduto dal balcone» disse Manfredicon voce bassa e tono incredulo.
«Ottimo spirito di osservazione. Lei ha appena rico-nosciuto una regina di settecento anni fa, prove-niente dallo Yorkshire e ritrovata negli anni ‘70durante uno scavo archeologico vicino alla città diMilton Keynes, nell’Inghilterra centrale.»«Ma ne è certo?» «Le informazioni che le ho sintetizzato sono tutteriportate in questo libro scritto da uno dei più gran-di conoscitori di scacchi al mondo. Penso che ilmargine di errore sia molto basso se non pari azero.»«E il simbolo trovato sul pezzo di carta vicino allaragazza morta nel bagagliaio?»«Ho trovato anche quello, guardi. Praticamente unparallelepipedo in verticale con la punta leggermen-te spostata sulla destra, se non ricordo male.»«Ricorda bene» rispose Manfredi portandosi untoscano alla bocca.
«Ebbene, ecco il suo alfiere in legno e osso. Anchequesto del quattordicesimo secolo come il cavallo,ma ritrovato durante degli scavi lungo il corso delTamigi. Di questo però non si cita né il luogo preci-so del ritrovamento, né c’è una datazione.»Il poliziotto era sbigottito e contento allo stessotempo. Questa scoperta faceva compiere un balzoin avanti alle indagini, e contemporaneamente lecomplicava enormemente. Avrebbe dovuto ristudia-re tutti gli omicidi sotto una luce diversa per vede-re se collegandoli a questa nuova scoperta si pote-vano ottenere maggiori informazioni.
«Fiammetta, non so quali possano essere le parolegiuste per farle i complimenti. Non ci sono piùdubbi che tutto questo sia veramente collegato conlei, con la sua rivista e con il concorso scacchistico.
La mia ipotesi era esatta.» A quelle parole Arturo sentì decuplicata la voglia diurinare: non ce la faceva più ma era troppo concen-trato sul discorso. I pensieri correvano veloci come avrebbe voluto farlui stesso verso l’agognato bagno. «Lo crede davvero?»«E’ ovvio. Chi ha compiuto i delitti ha volutamentelasciato tracce fin troppo evidenti per permetterci diarrivare a questo. Gli scacchi antichi, la pagina dicopertina e le sue iniziali. Cosa può significare senon che lei c’è dentro fino al collo?»«Non voglio certo essere coinvolto ulteriormente, ese lei pensa che le cose stiano in questo mododomani mattina parlerò con il direttore e gli diròche la rubrica degli scacchi è momentaneamentesospesa.»«Non dica stupidaggini, Fiammetta. Per ora lei è unpunto di riferimento fondamentale. Prima di faremosse avventate dobbiamo fermarci un attimo,respirare e analizzare meglio la situazione. Io hoancora bisogno del suo aiuto e ora che siamo arriva-ti fin qui lei non può negarmelo.»«Non se ne parla nemmeno. Io ho fatto quello cheho potuto e adesso voglio essere lasciato in pace. E’una vita intera che cerco di evitare tutto e tutti pertenermi lontano dai guai, e non voglio certo comin-ciare adesso.»«Ma lei nei guai c’è già. Se qualche pazzo ha presospunto dal suo gioco per ammazzare la gente, non può tirarsi indietro. E’ costretto ad affrontare le sueresponsabilità.»Manfredi si rese subito conto di aver forzato lasituazione, ma voleva essere certo di non perdere lapreziosa collaborazione di quell’uomo tanto stranoe particolare quanto ora spaventato. Cercò di inco-raggiarlo.
«Mi creda, il suo aiuto mi è più prezioso che mai.
Ho parlato con tutti i suoi colleghi: l’hanno descrit-ta come un profondo conoscitore di questo generedi cose.»«Hanno davvero detto questo?»«Certo. E visto che lei da solo ha capito in cinqueminuti quello che un’équipe di specialisti non hacapito in quasi cinque giorni, penso proprio chequella sua collega avesse ragione. Aspetti come sichiama? L’ho segnato qui… ah sì, ecco, CarlottaPorri.»«Carlotta? Ragione a proposito di cosa?»Manfredi consultò il taccuino fin che non trovòl’appunto che gli serviva.
«Ecco qui. Quando ho chiesto alla signorina Porriche cosa pensava di lei, la sua risposta è stata tantobreve quanto chiara.»Arturo percepì come un fremito lungo la spina dor-sale fino alla punta dei piedi e con lo sguardo solle-citò il poliziotto a proseguire.
«Cito testualmente: Arturo Fiammetta è una dellepersone più affabili ed intelligenti che io abbia mai conosciuto.»Dall’alto della montatura cercò di percepire seaveva ottenuto l’effetto desiderato.
«Ha realmente detto questo?»«Non le mentirei mai. Primo perché la rispetto,secondo perché mi sta aiutando» un sorriso accom-pagnò la frase.
«Ma precisamente cosa vuole che faccia? Io non hoalcuna esperienza in questo genere di cose.»«Niente di particolare. Continui a tenere gli occhiben aperti. Potrebbe darsi che qualcuno decida diprendere contatto direttamente con lei.»Per la prima volta da quando era iniziata tutta quel-la faccenda Arturo provò una vera fitta di dolore inmezzo al petto: era paura.
«Crede che qualcuno possa venire a cercarmi?»«Non possiamo escludere nulla, per il momento. Sel’artefice di tutto questo sa dove trovarla non èescluso che possa essere tentato di farle una visiti-na.»«Lo dice giusto per calmarmi, vero?»«Stia tranquillo, non ha nulla da temere. Ci saràsempre uno dei nostri che la terrà d’occhio.»«Tutto qui? Non devo fare altro?»Manfredi si alzò e con una mano sprofondata in unatasca cominciò la caccia all’accendisigari.
«Potrebbe anche darmi una mano con le indagini, selo desidera. Considerato che lei è un esperto discacchi, potrebbe vedere cose che a me probabil- mente sfuggirebbero. Anzi, perché non mi accom-pagna nel posto dove sto andando adesso?»«Uscire a quest’ora? E per andare dove?»«Come le ho accennato prima al telefono, sono statetrovate alcune tracce di un allucinogeno moltopotente in due delle vittime.»«Sì, mi parlava di dimetiltriptamina.»Ancora una volta il poliziotto rimase di stucco.
«Accidenti, allora mi stava davvero ascoltando.
Comunque, qui a Piacenza c’è stato un solo caso diarresto per spaccio di questa sostanza. E’ avvenutoall’interno di un locale notturno dove un tizio a noiben noto cercava di venderla a dei ventenni. Volevofare una salto a trovare questo amico e benefattoredella comunità per sentire se ha qualcosa di interes-sante da raccontarci. Che ne dice? Andiamo da que-sto bastardo?»Arturo ripensò alle parole di Carlotta. Si alzò, presele chiavi di casa e girandosi verso Manfredi cercò disimulare un’espressione alla Bruce Willis:«D’accordo mi ha convinto, andiamo.»«Sì, ma forse…»Lo interruppe mostrandogli il palmo della mano.
«Non c’è bisogno che dica altro, sono sicuro diquello che sto facendo e voglio andare fino in fondoper aiutarla a risolvere questa intricata matassa.»Il poliziotto rise stringendo il sigaro tra i denti, edirigendosi verso la porta fece un cenno con ilmento alla sua nuova recluta.
«Forse sarebbe meglio che prima si cambiasse.»Arturo si guardò e quando si rese conto di avereancora indosso il vecchio accappatoio provò un po’di vergogna.
«Mi dìa due minuti che faccio anche un gocciod’acqua.» Mentre i suoi occhi glaciali osservavano le opereappese alle alte pareti del museo, Marcello sidomandava come sarebbe stata la sua vita se cosìtante disgrazie, in passato, non si fossero abbattutesulla sua famiglia. Rifletteva, e intanto che ammirava i grandi e impo-nenti quadri che gli stavano tutt’attorno, girò su sestesso un paio di volte ed ebbe la netta sensazioneche i ruoli si fossero invertiti. Ora gli sembrava chefossero i dipinti ad osservare curiosi lui, e non vice-versa. Si sentì piccolo, ma non per un complesso diinferiorità: sentì invece, chiara e spietata, una natu-rale impotenza riguardo a ciò che era stata la suavita, sia per i suoi errori, sia per ciò che senza colpa,gli era capitato. Un turbinio di sentimenti lo assalì:rabbia, pena, incredulità, ancora rabbia, voglia diriscatto, autocommiserazione. Poi, di colpo, unmomento di assoluta, agghiacciante indifferenza;infine, solo il ricordo della sua infanzia triste rima-se, lasciandolo assorto e attonito a rimuginare inmezzo alla sala dei pittori del Seicento.
Dopo la tragica morte del padre e il successivoabbandono da parte della madre, non avendo altriparenti che si potessero occupare di lui, ancoraragazzino era stato chiuso in un istituto dove aveva trovato squallore e freddezza in abbondanza.
Nonostante l’ambiente difficile era riuscito a creareun legame d’affetto con una persona. Ovviamente sitrattava di un affetto fraterno, e corrisposto più perla stessa necessità che per affinità e consapevolez-za.
In effetti il Giocatore, come lui lo chiamava,mostrava nei suoi occhietti ravvicinati un profondosenso di vuoto che andava ben oltre la pena terribi-le e lo smarrimento che in un modo o nell’altro tuttii bambini abbandonati hanno provato. Marcello lopercepì subito, sin dal loro primo incontro.
Ogni istante di quel momento era ancora ben fissa-to nella memoria di entrambi.
Marcello era all’orfanotrofio già da due anni e nonaveva ancora legato con nessuno. Era molto bello econ i suoi occhi azzurri e il corpo ben fatto sembra-va un Tazio alla Thomas Mann. Agli educatori eagli assistenti del centro non erano sfuggiti neppurei segni evidenti di una precocità intellettuale noncomune, così come il suo atteggiamento ruvido,indifferente e distaccato che li preoccupava nonpoco.
Il dottor De Julis, giovane medico volontario dellastruttura, aveva diagnosticato velocemente i segniinequivocabili dell’atarassia: per non sentire piùdolore, e soprattutto il dolore dell’abbandono, ilragazzino aveva deciso di non sentire più niente.
Marcello, una volta, dopo la periodica visita, ascol- tò di nascosto il dottore che parlava con la signoraCristini, la responsabile delle assistenti: «.Il sub-conscio di questo ragazzo ha eretto un muro perproteggersi dal forte senso di abbandono e dal dolo-re che gli pervade l’animo. E’ un modo per difen-dersi, per sopravv.» Non aspettò la fine della frasee corse via, imperturbabile nel viso ma dentro di séintuì la verità di ciò che aveva sentito e la rifiutò: inun istante si convinse fermamente che quelle paro-le erano di un prete piuttosto che di un medico e cheil dottore non capiva un bel nulla. In verità, il dot-tor De Julis era un ottimo diagnostico, anche se nonsapeva curare i suoi giovani pazienti.
Solo l’arrivo del Giocatore in parte lo scrollò dalpericoloso torpore dei sentimenti.
Quel gigante dalle mani enormi non parlava quasimai, e le rare volte in cui lo faceva si esprimeva inmodo talmente strano da suscitare derisione e diffi-denza. “Ecco il ritardato”, dicevano gli altri ragaz-zini quando lo vedevano arrivare ciondolando versodi loro. Ma lui non era ritardato, era solo terribil-mente introverso a causa della sua “difficoltà dellaparola”. Ovviamente sempre secondo il parere delgiovane medico. All’epoca il Giocatore aveva circanove anni e quella era la terza struttura statale in cuiera stato trasferito dopo l’ennesimo tentativo d’in-serimento in una famiglia.
Fortunatamente chi aveva il dovere di controllare siera accorto delle violenze e dei tentativi di abuso che aveva subìto. Ma intanto che veniva cercataun’altra sistemazione, doveva rimanere in quelposto. Alla fine vi rimase per nove anni. Per lui,comunque, trovarsi lì, o nella camera buia dove lafamiglia adottiva l’aveva quasi segregato, oppureessere costretto a vivere sotto un ponte, non facevapiù differenza. Il Gigante voleva vivere isolato datutti, con la sola compagnia delle sue riviste di enig-mistica. Poteva rimanere giorni interi senza man-giare, bere o andar di corpo, ma non poteva staresenza i suoi rompicapi. Erano mesi che non parlavacon “una fassià” come chiamava lui le persone sco-nosciute, ma quella faccia in particolare, con occhitalmente chiari da sembrare quelli di un cieco,aveva qualcosa di diverso. Non scordò mai le primeparole che pronunciò Marcello mentre gli porgevaun piccolo pezzo di legno a forma di corona: «Sevuoi, ti insegno a giocare a scacchi. E’ un giococomplesso.»Da quel giorno diventarono inseparabili. Annidopo, quando Marcello compì diciotto anni, attesealtri sei mesi nel centro così che pure il Giocatorediventasse maggiorenne e potessero andarseneinsieme per cominciare una nuova vita.
I primi tempi fuori furono molto duri. Dovetteroaccettare ogni genere di lavoro, da sfruttati, per riu-scire a sbarcare il lunario, ma perlomeno alla sera,quando rientravano nello squallidissimo apparta-mentino che il Comune aveva loro assegnato, erano insieme e potevano dedicarsi alle loro passioni:Marcello studiava come un pazzo su libri di quartamano e fotocopie elemosinate ai compagni dellascuola serale in cui s’era iscritto, mentre il Gigantesi immergeva nelle parole incrociate. Spesso sidimenticavano addirittura di cenare e a volte persi-no di dormire. Poco alla volta le cose cominciaronoad andare meglio e Marcello, dopo il diploma, riu-scì anche ad iscriversi all’università di Agraria.
Qualche anno dopo le loro strade si divisero per unpo’ di tempo. Il Gigante rimase a lavorare nell’im-presa di costruzioni dove guadagnava il necessarioper sopravvivere, mentre Marcello decise di sfrutta-re l’occasione che gli si era presentata, andando alavorare per un’azienda di fertilizzanti chimici nelsud della Francia. Naturalmente rimasero in contat-to scrivendosi spesso, e riuscirono anche a passareun Natale assieme, come ai vecchi tempi. Dopo treanni, però, Marcello decise che era ora di ritornarenella sua Piacenza, con un solo scopo nel cuore enella mente. Affittò una vecchia casetta di campa-gna nell’alta Valtrebbia, e riprese il Giocatore avivere con lui. Gli preparò una camera da letto conuna grande scrivania piena zeppa delle sue letturepreferite.
In quella tana sicura, poco alla volta si era formatoil grande disegno che presto avrebbe cominciato adare i suoi frutti: l’appagamento di una crudele setedi vendetta e la conseguente notorietà che erano certi di raggiungere. Ormai tutto era sacrificabileper il raggiungimento dello scopo. Anche loro stes-si.
Ogni particolare era stato pianificato nei minimidettagli con l’aiuto di Carlo, il loro terzo socio chetanto si era prodigato per ogni cosa, ma in partico-lare per la riuscita di quella che lui stesso avevachiamato “la zampata del museo.” A Marcello quel-la definizione non piaceva, perché gli sembrava stu-pida, ma non lo disse mai. Diceva sempre:«L’importante è che vada tutto liscio in quel cazzodi museo». Erano lì per questo. E solo per questo.
«Ti piacciono questi quadri?» Chiese Marcellolisciandosi i baffi posticci che gli prudevano damorire.
«Unbè, mica piace tanto.» «Allora vuol dire che non ne capisci molto di arte,amico mio. Questi sono dei grandi capolavori.»I due si trovavano nei musei di Palazzo Farnese alseguito di uno scarno gruppo di turisti intenti aseguire, curiosi e interessati, una giovane guida.
Rimanevano qualche metro indietro rispetto aglialtri perché Marcello, persino in quel momento,voleva poter godere della visita senza dover soppor-tare l’ingombrante e rumorosa vicinanza degli altrivisitatori. «Vedi questo quadro rotondo? E’ del Botticelli.
Osserva che bel blu.»«Lub» fece eco distorta il gigante.
«Non sarebbe bello averlo appeso nella nostra casaper poterlo guardare tutti i giorni mentre mangia-mo?»«Io prenne se tu vò.»Una tenera risata uscì dalla bocca di Marcello.
«No, grazie caro, ma oggi far scattare un allarme èl’ultima cosa che ci serve. Ti ricordi invece cosasiamo venuti a fare qui, vero?»«Vengo mussseo con te, e poi resto solo mè.»«Sì, ma sarà per poco. Appena avrai fatto quello cheabbiamo stabilito potrai uscire da qui attraverso ilpassaggio che ti ho mostrato. Ti ricordi tutto,vero?»«D.de…di…tlè.»«Esatto vecchio mio. Esatto.» Verso le diciotto la visita terminò. Sergio, la guidadel museo, era già pronto per fare il consueto giroal fine di verificare che nessuno dei visitatori sifosse perso nelle grandi sale che formavano l’intri-cato labirinto del palazzo.
Ciò costituiva una delle sue mansioni di routine, edera tra quelle che più gli piacevano perché in queimomenti poteva avere il museo tutto per sé, così,come sempre, si infilò le cuffiette, fece partire lamusica e iniziò la sua ronda lungo i corridoi e i salo-ni.
Amava il suo lavoro per diverse ragioni, prima sututte, ovviamente, la passione per l’arte.
Sin da ragazzino i suoi genitori lo avevano ben abi-tuato, portandolo spessissimo alle mostre e neimusei. Sergio, al contrario di tanti suoi coetanei,rimase affascinato da quel mondo e presto deciseciò che voleva diventare nella vita: un docente dibelle arti o, ancora meglio, un critico. Frequentò illiceo artistico e poi si iscrisse all’Accademia.
Per il momento, lavorare al museo, grazie agli orariabbastanza elastici, gli permetteva di proseguire glistudi, ma soprattutto di frequentare l’ambiente deigrandi eventi culturali piacentini.
Con Bon Jovi che gli gridava nelle orecchie, arrivònella sala che ospitava quello che era considerato ilpezzo più prezioso del museo: il fegato etrusco.
Come tutti i giorni faceva, neppure lui sapeva per-ché, si mise a leggere la scheda informativa, cheperaltro conosceva a memoria.
"Arcano reperto archeologico di oltre duemila anni,è stato ritrovato nelle campagne piacentine percaso, da un agricoltore mentre arava un campo. Sulbronzeo reperto, dalla forma di fegato ovino, sonoincise quaranta iscrizioni in lingua etrusca divise insedici settori; inoltre, due iscrizioni si trovano sullaparte parietale al di sotto. Il vero significato di que-sto affascinante oggetto ancora oggi non è statocompreso completamente e." Sergio smise di leg-gere e pensò alla tesi di laurea che stava preparan-do proprio sul fegato etrusco, e si chiese quandoavrebbe raccolto i frutti dei suoi studi. Si soffermò qualche secondo ad osservare l’inesti-mabile manufatto nella sua teca piramidale, poi sichinò per schiacciare l’interruttore e spense la luceche la illuminava. Per quel giorno non ci sarebberostate altre visite e nell’ultimo giro di perlustrazioneuno dei suoi compiti era di chiudere le porte taglia-fuoco e spegnere le luci nelle vetrine espositive.
Terminò rapidamente tutte le operazioni al primopiano, prese l’ascensore di servizio e scese nellefondamenta del palazzo dove era ospitato il museodelle carrozze d’epoca.
Appena le porte dell’ascensore si aprirono gli venneistintivo abbassare il volume della musica. Subitopercepì uno strano odore, un’odore che non avevamai sentito prima. Qualcosa di dolciastro aleggiavanell’aria. Se ne accorse immediatamente perché disolito quelle stanze, trovandosi nei sotterranei, odo-ravano sempre e solo di muffa e di chiuso.
All’improvviso si ricordò di una truccatissima epetulante signora nel gruppo della visita guidataappena terminata, e si convinse che ciò che sentivafosse un rimasuglio del dozzinale profumo di quel-la donna. “Rompiballe lei e rompiballe il suo profu-mo” pensò Sergio “e rompiballe il suo «che delizio-se le spade del quindicesimo secolo, ma come sonocarine.» Che stupida oca.”Continuando mentalmente a maledire la superficia-lità di certi visitatori, proseguì il suo giro di rondapassando attraverso le eleganti carrozze perfetta- mente restaurate finché arrivò in un piccolo cortile,dove era esposto un rarissimo carro dei pompieri diinizio secolo con tutta la magnificenza della scala dilegno estesa per oltre trenta metri. Chiuse a triplamandata la porta che divideva questo ambiente dalresto delle sale e ironizzò sul fatto che stava scrupo-losamente seguendo le disposizioni di sicurezzaproprio dei Vigili del fuoco. Si voltò, e guardando illungo corridoio a volta davanti a lui, circa a metà,vide un magro vecchietto quasi completamentepelato che se ne stava lì, immobile, e lo fissava.
Sentì il cuore balzargli in gola per un attimo e unaforte vertigine per poco non lo fece cadere a terra.
Appoggiò la mano a un muro per reggersi e si rivol-se alla misteriosa figura.
«Signore, lei non può stare qui. Il museo chiuderàtra qualche minuto.» Il vecchio non si mosse.
«Ha sentito che cosa le ho detto? Venga, mi seguaverso l’ascensore che la faccio uscire.»La giovane giuda tentò un passo, ma gli girava mol-tissimo la testa e il solo cercare di pensare gli pro-vocava un dolore acuto e nausea: si sentì turbato eimpaurito.
Il vecchio si era messo a camminare verso di luimolto lentamente tenendo le braccia incollate aifianchi come un diligente soldatino. «No, non in questa direzione. L’uscita è dall’altraparte. Porca puttana, ma che cosa mi succede? Miscoppia la testa.» Ora i due erano a pochi metri di distanza e potevavedere meglio il viso del vecchio. Lo riconobbe.
«Oh cazzo… ma lei è…»«Non mi sembra molto educato come saluto.»Sergio appoggiò la schiena contro la porta di vetroche aveva appena chiuso alla sue spalle e si lasciòscivolare fino ad arrivare con il sedere per terra. Ipensieri affluivano scomposti nella sua mente e sichiese come fosse possibile che nonostante la musi-ca che proveniva dalle cuffie riuscisse a udire leparole dell’inquietante uomo davanti a lui.
«Lei è il curatore del museo… ma lei non può esse-re qui… lei è morto un anno fa.»«Certo, quel giorno il mio cuore si è fermato. Tiricordi dov’è successo?»«Proprio in questa stanza… porca puttana.» Lavoce di Sergio si era fatta tremante e incerta, cerca-va ancora di reagire ma ad ogni tentativo il doloreaumentava. Sgomento, notò che la faccia del vec-chio era fissa, immobile, non un muscolo si muove-va neppure quando parlava.
«Vedo che non hai perso il vizio di usare quellebrutte parole.»Sergio era in uno stato di angoscia tale da non riu-scire neanche a piangere per la troppa paura. Sicoprì il volto con le mani e sperò di perdere i sensi.
«Non chiudere gli occhi. Sono qui per darti unabella notizia. Dovresti essere contento, non preoc-cupato.» «Mi sento la testa esplodere, ho voglia di vomita-re.»«Prima che tu stia male voglio dirti una cosa.
L’altra sera durante la solita riunione di fine meseabbiamo preso un’importante decisione. C’eranotutti i responsabili che hanno gestito questo postonegli ultimi duecento anni.»Il ragazzo si era accovacciato a terra in posizionefetale ed era scosso da singhiozzi e brividi.
«Non sei curioso di sapere che cosa abbiamo deci-so?»«Vattene maledetto, vattene. Tu non ci sei qui,cazzo. Tu sei morto. Vatteneeeee!» Il rimbombo diquelle grida disperate fece eco per tutti i sotterranei.
«Sì, certo, adesso me ne vado. Volevo solo dirti cheall’unanimità sei stato nominato responsabile deglieventi del museo. Non sei contento?»Sergio riemerse con la testa dalle braccia con cui siproteggeva dalla vista di quel fantasma.
«Di. dice davvero? Io sono il nuovo responsabi-le?» Chiese, con un filo di voce residua.
«Certo. Perché dovrei mentirti? Solo che, santocielo, dovremo fare qualcosa per quel linguaggiocosì scurrile. Non vorrai farmi fare delle figuraccecon le persone che verranno a visitare il nostro belmuseo, vero? Avanti, adesso alzati e vieni con me.
Abbiamo un sacco di lavoro da sbrigare.»Sergio si fece forza e sempre poggiando la schienacontro il vetro, riuscì a rimettersi in piedi e compie- re un passo.
Ad un tratto si accorse che gli era caduto il mazzodelle chiavi. Si chinò per raccoglierlo e quando sirialzò, al posto del vecchio, vide un uomo gigante-sco piantato a un metro da lui che con la sua figuraoccupava tutta la vista sul corridoio. La fitta allatesta, che per qualche secondo gli aveva dato tre-gua, si riacutizzò.
«Tu chi sei? Dov’è andato il curatore?»«Onghè atore qui. Olo gogatore.»«Cosa hai detto? Adesso mi ricordo di te, prima erinel gruppo dei visitatori.»Il Giocatore alzò un braccio in aria e con un pugnolo colpì in pieno viso. Afferrò le caviglie del ragaz-zo svenuto e lo trascinò fino alla carrozza presiden-ziale che si trovava nella stanza a fianco.
Aprì delicatamente lo sportello facendo scricchiola-re gli antichi cinghioni di cuoio che reggevano lacabina passeggeri e con calma afferrò il robustocollo di Sergio e lo strinse con tutta la sua forza,quindi cominciò a contare alla rovescia partendo dacento come gli aveva detto Marcello.
«Nontaove…nonanotto…nonanette….»Quando arrivò a zero, sempre tenendolo per il collo,il gigante adagiò con delicatezza il corpo sui lus-suosi sedili in velluto rosso della carrozza, recupe-rò il mazzo di chiavi e corse con passo pesante nelladirezione che l’amico gli aveva fatto imparare amemoria sulle piantine appositamente disegnate, come all’interno di un immaginario e bellissimocruciverba.
Rab, èffac….
Mentre l’auto sfrecciava per le scure e calde stradedella città, la mente di Arturo macchinalmenteaveva ricominciato con la solita ossessione.
Etnarotsir, acnab…«Voglio che lei stia tranquillo per la sua incolumità,non si deve preoccupare di nulla.»La passione di Manfredi per la guida veloce eranata ai tempi in cui, ancora giovane allievo, avevadimostrato doti non comuni di destrezza e abilità.
Per questo motivo, e perché mal tollerava la guidaaltrui, in servizio cercava sempre di essere al volan-te. Tra i corridoi della questura era diventata unacosa abbastanza curiosa e c’era chi ci scherzava su,perché era strano vedere un ispettore capo che gui-dava con a fianco un agente scelto e non viceversa. Itnemaderra, alocide, oiranoissecnoc…«Sa di potersi fidare, vero?»Arturo, seduto sul sedile posteriore, incrociò losguardo di Manfredi nello specchietto retrovisore.
«Manca ancora molto a questo posto? Comincio adavere un po’ di nausea.»«Ancora due minuti e saremo arrivati.»Due minuti e venti secondi dopo erano davanti allaporta d’ingresso dello Spruzzo, un discopub contro- tendenza ed eclettico, appena fuori città.
«Mi raccomando, Fiammetta, non si faccia intimo-rire da questa gente. Voglio che lei ascolti tutto eosservi con attenzione, ma non intervenga mai, pernessuna ragione. Mi sono spiegato?»«Non c’era bisogno che me lo dicesse.»Arturo aveva le mani sudate e i brividi lungo laschiena nonostante i trentun gradi di quella notte.
«Se questa gente sa qualcosa di questa dannatadroga e su chi la spaccia, non sarà certo disposta aservircela su un piatto d’argento, quindi dovremoessere in grado di carpire e interpretare ogni infor-mazione che ci possa tornare utile.»«Farò del mio meglio.» Lasciarono in macchina l’assistente, che poté final-mente sedersi al posto di guida, e si presentaronoall’ingresso del locale. Arturò guardò con un certodisgusto la grossa porta nera che aveva di fronteperché era sporca e piena di adesivi incomprensibi-li e pensò a quanto era distante ormai dal mondo deidivertimenti notturni ma anche del semplice stare inmezzo a tante persone.
All’interno l’aria era più fresca e respirabile diquanto non si aspettasse.
Dato che non era neppure mezzanotte, il locale eraancora semivuoto.
Arturo era molto incuriosito dall’ambiente e notòche tutto di quel posto richiamava il colore verde,ma un verde strano, artificiale, e che gli sembrava vivo. La nevrosi lo rendeva molto sensibile aisuoni, al rumore così come alla luce e ai colori.
Vide che divanetti e sedie erano di plastica verde eche lungo il bancone del bar correva un unicogigantesco neon spruzzato da piccoli giochi d’ac-qua che ricordava un enorme cuore verde pulsante.
Sul palcoscenico in fondo alla sala una ragazza can-tava tenendo gli occhi chiusi, su una base dubstepche ora sentiva battergli nel petto e nella testa. Afianco della cantante c’era un capellone seduto suuna cassetta della frutta capovolta, che l’accompa-gnava con la chitarra elettrica ma sembrava suonas-se per conto suo.
La canzone terminò e inaspettatamente dalle enor-mi casse, piantate come torri agli angoli del locale,uscì una musica diversissima dalla precedente.
Arturo si bloccò, catturato da quelle note. Nonappena la voce di Cher iniziò a intonare le primeparole di Strong Enough l’impulso fu irrefrenabile.
Allargò leggermente le gambe, scostò i gomiti daifianchi e diede inizio a una serie di scoordinatemovenze che più che un ballo sembravano essere leultime fatiche di uno sciatore di fondo stremato aventi metri dall’arrivo.
Manfredi osservava incredulo con gli occhi sbarra-ti e trattenendo a stento una risata. «Ma che cosa sta facendo?»Arturo lentamente si arrestò, continuando però aciondolare sul posto.
«Mi scusi ma quando sento la voce di Cher perdo ilcontrollo.»«Non mi sembra questo il momento più opportuno,non le pare? Venga Fiammetta, mi rimanga vicino enon prenda più iniziative di alcun genere.»Con passo lento arrivarono al bancone dove unuomo con un codino unto e repellente stava versan-do pezzi di frutta dentro a un frullatore.
L’ispettore tirò fuori un portadocumenti di pellenera e gli mostrò il tesserino.
«Devo parlare con il padrone della baracca.»Il barman non si prese neanche la briga di guardar-li in faccia e continuando a preparare il suo intru-glio indicò col dito una porta sul lato destro dellasala.
Dopo aver bussato per due volte senza ottenererisposta, Manfredi aprì ed entrarono.
In quell’ufficio l’arredamento era squalido: undivano sporco, un tappeto chiassoso e troppo nuovoed un armadio sgangherato. Al grande tavolo al cen-tro della stanza stava seduto un uomo in giacca ecravatta che portava occhiali da sole alla moda eleggeva un giornale.
«Astice, non hai sentito la dolce manina che bussa-va alla porta?»Mario Santi, che tutti chiamavano Astice ma nessu-no sapeva perché, abbassò la parte superiore delquotidiano e guardò con fare annoiato in direzionedei due uomini.
«Ma che bella sorpresa, l’ispettore Manfredi.
Prego, si accomodi pure. Vuole che metta subito lemani dietro la schiena così mi può ammanettare etrascinare via come l’ultima volta?»Il poliziotto era abituato a quel sarcasmo e risposedi conseguenza, ma alla svelta, perché aveva ben inmente il suo obbiettivo.
«Per ora mi accontento di qualche minuto del tuopreziosissimo tempo. Sempre che non ti arrechitroppo disturbo.»Santi portò lo sguardo su Arturo che non avevaancora capito se doveva aspettare sulla porta o arri-vare fino al centro della stanza.
«Vedo che si è anche portato dietro un torturatore diprofessione, questa volta. Che razza di informazio-ni avete bisogno di estorcermi?»Manfredi sapeva bene che forzare subito la situa-zione non sarebbe servito a nulla. Conosceva la fur-bizia di quel personaggio, uno “col pelo sullo sto-maco” - come si dice - lui e i suoi anni di galera:con le maniere forti non sarebbe riuscito a ottenereniente, se non perdendo un sacco di tempo. Dovevagiocare di sponda.
Con gli occhi di Astice che lo fissavano da dietro lelenti scure, infilò lentamente una mano in una dellesue grandi tasche e muovendosi più lentamente pos-sibile, ma senza essere goffo, estrasse il portasigari. «Ne vuoi uno?»Astice scoppiò a ridere e lanciò via il giornale.
Afferrò un toscano e se lo mise in bocca, Manfredifece lo stesso.
«Perché il suo amico rimane sulla porta? Non è unosbirro, vero?»«No, non lo è. Senti, veniamo al sodo. Ora ti faròuna domanda e se tu farai il bravo dandomi la rispo-sta giusta, noi ce ne andremo in una frazione disecondo. Tutto chiaro?»«Se vuole sapere dove si trovava sua moglie ierisera le dico subito che può stare tranquillo. Non eracon qualche sconosciuto, ma proprio qui con me epiù precisamente sotto questa scrivania.»Un’altra risata echeggiò nello squallore della stan-za.
Arturo, che seguiva tutto con molta attenzione mache si sentiva molto nervoso, non riuscì a trattenereuna risatina, un po’ per lo strano modo di ridere diquel tizio, e un po’ per la battuta. Manfredi lo ful-minò con lo sguardo.
«Certo, non avevo dubbi. Per questo quando è tor-nata a casa era così triste e delusa.»Astice smise di ridere, prese il telefono dalla scriva-nia e ordinò tre birre al bar.
«Oh Signore. Allora sentiamo che cosa vuole ilnostro ispettore, dato che sembra che non abbiavoglia di scherzare, stasera. Su, cosa vuole?»Si sfilò il sigaro dalla bocca e si rilassò in poltronaincrociando le mani dietro la nuca.
«Dimetiltriptamina.» L’espressione spavalda sparì immediatamente dalvolto di Santi e si tramutò in una smorfia tesa checercava di macherare senza riuscirvi. Arturo nonpoté fare a meno di notare i muscoli delle mascelleche pulsavano.
«Mi spiace, ma non ho più a che fare con quellaroba.»Manfredi emise un suono dalla bocca come a volersimulare un fastidioso segnale acustico.
«Risposta sbagliata. Siamo partiti malino direi, edato che mi ritrovo con poco tempo sono costrettoa darti un piccolo incentivo.»Un altro foglio comparve magicamente dall’imper-meabile.
«Sai che cos’è? Lo riconosci? E’ la licenza di que-sto merdosissimo posto. E sai cosa succede se perun qualsiasi motivo io decidessi di fartela revocare?Prima di tutto tu te ne torni in galera visto che seifuori solo grazie al lavoro che fai finta di portareavanti. In secondo luogo, quella bella biondinadella tua fidanzata che va in giro per i tavoli a farela troia coi clienti buoni sarebbe rimpatriata imme-diatamente nel suo Paese. Passo al terzo punto obastano i primi due?»Astice, nel sentire quelle parole, ebbe uno scattod’ira inaspettato: si tolse gli occhiali da sole e li lan-ciò contro il muro.
«Stai per caso cercando di fottermi, sbirro?»«Oh, bene. Hai visto che se t’impegni le cose le capisci al volo? Ti fotterò a sangue se non mi diciquello che mi serve, quindi parla, coglione. Peròabbassa la voce altrimenti il mio amico si spaventae io m’incazzo. Riproviamo. Dimetiltriptamina.»«Gliel’ho detto, non ho più a che fare con quellaroba. Troppo pericolosa e poi non c’è da guadagnar-ci un cazzo.»Manfredi, che stava perdendo la pazienza, diede unviolento calcio alla base in metallo della scrivaniacon il solo risultato di far sobbalzare Arturo per lospavento.
«Non dirmi che è tutto qui. Fallo per la tua puttanadi là. Parla.»«Ho sentito dire che qualcuno in città ne stava cer-cando diverse dosi, ma non ho davvero idea di chicazzo sia.»Il poliziotto cominciò a strappare lentamente lalicenza che teneva ancora in mano fissando negliocchi lo spacciatore.
«Le sto dicendo la verità, perdio. Lo giuro. Daquando mi avete legato sono stato tagliato fuoridalle cose importanti. Si rivolgono a me solo perfarmi distribuire un po’ di coca, piccoli favori, e lametà me la faccio io. Sono completamente fuori dalgiro.»A quelle parole Manfredi, che sapeva che Astice eraun bugiardo patologico, sentì schifo e rabbia eavrebbe voluto picchiarlo. Ma si trattenne, ancheperché doveva finire il lavoro. Il suo sguardo però era diventato duro e inequivocabile tanto che ildelinquente capì e si affrettò ad aggiungere: «Mauna cosa posso dirvela per certo: chiunque vuole epuò comprare quello che cercate deve essere unpazzo. Quella roba ti fonde la testa, nel vero sensodella parola.»Finalmente Arturo ritrovò il respiro e decise dientrare in quella educata conversazione.
«In che senso ti fonde?»Astice tirò su con il naso e poi rispose senza perde-re di vista il foglio che Manfredi aveva in mano.
«Chi la prende è perché vuole decollare per un altropianeta. Quando quella merda comincia a fare effet-to non sei più tu. Tutto il mondo intorno a te si tra-sforma, ti sembra di vivere un’altra vita, fuori daltuo corpo.»Manfredi riafferrò le redini della situazione.
«Dove trovo chi ce l’ha?»«Non lo so davvero. Se fossi io a darla via mande-rei un fattorino a fare la consegna e poi mi rintane-rei in casa. E’ difficile che sia qualcuno del posto, sibrucerebbe troppo in fretta. Ma tutto questo non èche ha che fare con quella serie di strani omicidi chestanno succedendo, eh?»Gli occhi svegli dell’ispettore cominciarono a bril-lare.
«Perché chiedi questo?»«Perché in una città piccola come questa non è dif-ficile fare due più due. Avete trovato il Dmt nelle vittime vero?»«Astice, se mi fai incazzare sul serio guarda che poipiangi.»«Ma io sto collaborando, sbirro. Anzi, se un giornola tua paga non ti dovesse bastare fammi un fischioche un posto per te lo si trova sempre. Comunqueavete per le mani davvero una brutta faccenda.»Lo spacciatore sogghignando si alzò e con unamano si sistemò delicatamente gli attributi.
«Le voglio fare un grosso regalo per dimostraretutto il mio rispetto per la Polizia così poi lei lasce-rà stare la mia licenza, vero?» Si diresse verso un quadro raffigurante una barcaappeso alla parete e lo staccò. Dietro c’era una cas-saforte, un modello di qualche decennio prima. Laaprì, prese dall’interno una piccola boccetta traspa-rente e la porse a Manfredi. Il poliziotto fece perprenderla ma Astice ritrasse velocemente la mano.
«Io faccio un regalo alla polizia e la polizia fa unregalo a me.»«La polizia non ha bisogno di fare regali. Prende ebasta.»«Sì, lo sapevo benissimo, ma tentar non nuoce.
Queste sono poche gocce di Dmt un ricordo deivecchi tempi. Prima che facciate irruzione qui den-tro e lo troviate preferisco darvelo. E poi questaroba ora scotta troppo.»«Perché non me lo hai detto subito?»Astice fece spallucce e si rimise gli occhiali che si era chinato a raccogliere.
«Speravo di ricavarne un piccolo rimborso spesema oramai il gioco non vale la candela.»Una cameriera arrivò con le birre e le mise nellemani dei tre uomini.
Aveva lunghe gambe tornite e una minigonna ingui-nale. Quando passò davanti ad Arturo gli fece l’oc-chiolino e un verso con la lingua, provocandogliuna nuova raffica di pulsazioni accelerate.
«Adesso facciamo un giro in questo cesso poi ce neandiamo. Mi raccomando, rimani in zona perchéforse avrò ancora bisogno di te.»«E la mia licenza, non la lascia qui?»«Quella la tengo io. Se tutto andrà bene metterò unabuona parola con il vicequestore. Tu fa’ il bravointanto, perché ci rivedremo presto.»«L’aspetto a braccia aperte ispettore e mi raccoman-do: mi saluti la sua signora.»Usciti dall’ufficio di Astice, i due si fermarono albancone a finire la birra.
La musica era nettamente migliorata. Altre personeerano arrivate e l’ambiente adesso aveva un’ariameno squallida, meno da bordello mascherato. «Stiamo cercando ancora qualcosa qui, ispettore?»«Mi piace osservare la gente. Lei lo fa mai?»«Io cerco di evitare la gente, più che osservarla.»«Certo che lei è davvero un tipo strano. Non fre-quenta donne, non ha amici e sembra trascorrere legiornate con la testa sotto la sabbia come uno struz- zo. Ma le piace davvero vivere così?»«Cosa dovrei fare? Prendere a calci le scrivanie eminacciare gli ex galeotti, spacciatori e intrallazzo-ni?»«Quella era una sceneggiata. A volte è necessarionel mio lavoro.»«Ah, quella era una sceneggiata?» disse Arturo tral’ironico e lo scettico.
«Certo. Perché, non l’aveva capito? Solo il questo-re, o ancora più raramente il sindaco, può, in casidel tutto eccezionali, revocare una licenza. Il piùdelle volte si tratta di sospensioni di una, due, o alpiù tre settimane. E questo lo so io almeno quantolo sa quella merda di Santi. Quello che non sa lei,Fiammetta, è che se ad Astice viene impedito dilavorare, per esempio a causa di controlli stretti econtinui che gli sputtanano il locale, è praticamentecondannato a morte, perché non potrebbe più paga-re i grossi debiti che ha con la mala, quella dura. Ese parimenti Mario Santi, detto Astice, non mi dàqualche informazione ogni tanto, io gli impediscodi lavorare: è tra due fuochi, e quindi, se continua acomportarsi bene resta vivo, in caso contrariopotremmo trovare lui e la sua amica ucraina in unfosso senza mani e senza testa. Ecco perché ha par-lato e mi ha dato il Dmt. Sennò col cazzo che lofaceva.»«Ah, ho capito. Ma non ha mai paura che qualcunotiri fuori una pistola e le spari addosso?» «Una volta ho avuto un problema del genere, manon era una pistola, era un coltello.»Manfredi si chiedeva perché stava facendo una con-fidenza simile a Fiammetta: era stata una esperien-za dolorosa quella e ne conservava un dignitoso eriservato ricordo. Ma ora sentiva il bisogno di par-larne.
«L’hanno accoltellata?» Domandò Arturo quasiimbarazzato.
«Una decina di anni fa. Eravamo di pattuglia eabbiamo fermato una macchina sospetta. Quandomi sono avvicinato al finestrino per chiedere i docu-menti non ho neanche avuto il tempo di rendermiconto di quello che stava succedendo e mi sono tro-vato dieci centimetri di acciaio gelato nelle budel-la.»Istintivamente Arturo si portò la mano alla panciacome se avesse avvertito una fitta.
«Non ci ho rimesso le pelle solo perché quel bastar-do tremava talmente tanto che non riuscì a centrar-mi il fegato.»«E questo non la influenza minimamente nellesituazioni come quella di poco fa?»«Certo, è che ho imparato a controllare la paura. Leic’è sempre, cova sotto la pelle, ma come mi ha fattocapire lo psichiatra, sono io che la controllo e leideve starsene lì buona e zitta fino a quando è pron-ta a saltare fuori solo per salvarmi il culo.»«Deve essere stato un lavoro difficile.» «Quale?»«Quello con il suo psichiatra. Dopo quello che havissuto ce ne deve essere voluta per poter tornare allavoro.»«Oh Fiammetta, non sa quanto. A parte la mia fami-glia, io vivo per il lavoro. Tengo la mente attivagiorno e notte sul caso che gestisco e le assicuro chein questi ultimi giorni non ho dormito molto. Fareiqualsiasi cosa per risolvere questi omicidi.» Buttògiù l’ultimo sorso di birra e rimase assorto.
«Se posso essere sincero, e visto in che cosa mi hatrascinato mi sento di esserlo, in un primo momen-to quando l’ho conosciuta la facevo più un passa-carte che un uomo d’azione.»«Senta, io voglio beccare chi ha ucciso queste per-sone e sono disposto ad usare ogni mezzo.»«Queste sue parole potrebbero suonare anche pocolegali sa?»«Non faccia l’ingenuo con me. Sono morte dellepersone innocenti e il mio dovere è quello di dareun volto al colpevole. Lei è disposto a darmi unamano?»Arturo sentiva puzza di trabocchetto.
«Non è quello che sto facendo?»«Ho bisogno di molto di più.» Il poliziotto accom-pagnò le sue parole fendendo l’aria con il pugnochiuso.
«E che cosa dovrei fare secondo lei? Girare per lacittà vestito come un pezzo degli scacchi?» «Sa che lei, Fiammetta, mi piace? Sono convintoche sia una persona molto intelligente. Anche se laconosco da poco, il suo modo di ragionare mi affa-scina. Credo che lei possa fare la differenza in que-ste indagini. Però devo sapere fino a che punto laposso spingere.»Arturo scoppiò a ridere.
«E dove mi vorrebbe spingere? Sull’orlo del bara-tro?»«In un certo senso potremmo anche dire così.»Ora era assolutamente certo che quelle lusingheavessero uno scopo ben preciso.
«Manfredi, lei mi fa paura, sa? E comincio a crede-re che sia anche pericoloso.»«Ma se sono un agnellino.» rispose sornione.
«Perché non mi dice chiaramente che cosa vuole?»«Prima un domanda. Che idea si è fatto di tutta que-sta faccenda?»Arturo di stropicciò gli occhi come tutte le volte chevoleva raccogliere le idee prima di parlare.
«E’ difficile farsi una quadro preciso. A parte i rife-rimenti agli scacchi, non sembrano esserci altripunti chiari. Ovviamente per quanto possa valere ilmio giudizio da profano. Per saperlo bisognerebbeessere nella testa dell’assassino.»Manfredi staccò i gomiti dal bancone a cui eraappoggiato e afferrò le spalle di Fiammetta. «Porca puttana, vede che avevo ragione? Lei hadetto esattamente le parole che volevo sentirle dire, “essere nella testa”. E adesso noi abbiamo una pos-sibilità in più per poterci riuscire.»«Ispettore, sono un po’ stanco e temo di aver persoil filo del discorso. Quale possibilità?»Il poliziotto infilò ancora una volta la mano nellatasca dei pantaloni ed estrasse la boccetta di Dmtpiazzandola davanti alla faccia di Arturo.
«Questa possibilità.»«Le spiacerebbe essere più preciso?»«Fiammetta, lei deve aiutarmi a entrare nella testadell’assassino. Perché droga le sue vittime con que-sta roba? Perché le tracce di Dmt sono state trovatesolo in due cadaveri e uno di questi riguardava unduplice omicidio?»Arturo si controllò la camicia madida di sudore e sidomandò come Manfredi facesse a resistere conaddosso l’impermeabile.
«Non ne ho idea del perché. Non sono io il poliziot-to.»Manfredi sembrò non averlo sentito e continuò aparlare.
«Non sarebbe più semplice ammazzare e scappare?Drogare la vittima e restare ad osservarla agoniz-zante aumenta le possibilità di essere scoperti. Se facosì ci deve essere un motivo preciso.»«Sono certo che lo scoprirà, ispettore. Ora, se nonle dispiace, vorrei tornare a casa.»«Prenda.» Manfredi mise in mano la boccetta ad Arturo e finalmente calò le carte.
«Lei deve provare questa roba. Deve cercare dicapire entrando nella testa di chi considera questadroga così importante.»Arturo rimase immobile per qualche istante poiappoggiò la bottiglia di birra vuota sul bancone.
«Ma lei è pazzo o lo fa apposta?»L’ispettore si prese qualche istante per trovare leparole giuste perché il momento era cruciale e nonpoteva permettersi di perdere l’aiuto di Arturo.
«Mai stato tanto serio in vita mia. Faremo tutto inmodo non ufficiale e tra le mura di casa. Non è unadroga pericolosa per il fisico, non dà dipendenzapsicologica né assuefazione, ha solo un potenteeffetto allucinogeno. Se ci sarà qualcuno vicino alei non correrà nessun pericolo e in più farò venireun medico che mi deve un favore.»Arturo non credeva alle sue orecchie e cercò dirispondere senza alzare troppo la voce per non cor-rere il rischio di perdere definitivamente la calma.
«Ma non se ne parla neanche. Lei è fuori di testa, lodicevo io che era pericoloso. Vada al diavolo.»Si diresse verso la porta e uscì all’esterno dovecominciò a respirare aria calda ma più pulita diquella che c’era nel locale.
Manfredi lo raggiunse e gli si parò nuovamentedavanti.
«Fiammetta, lo so che mentre venivamo qui le hodetto che non doveva preoccuparsi per questa situa- zione, ma devo dirle non sono stato completamentesincero con lei.»«Che c’è ancora?» Non si ricordava di aver maisudato tanto come in quella sera.
«Tutti quelli che rientrano in questo folle progettoomicida sono destinati a morire se non fermiamo intempo il responsabile. Il fatto che le sue inizialisiano state trovate su quei pezzi di carta mi fa capi-re che ci sono grosse possibilità che lei non solo siacoinvolto, ma che sia proprio uno dei protagonistidi questo tragico gioco.»Arturo sentì di essere sulla soglia di una crisi dinervi.
«Ma perché qualcuno dovrebbe avercela con me?Non ho mai infastidito nessuno. E poi perché non laprende lei quella droga se proprio vuole sapere cosasuccede?»«Mettere da parte il mio orgoglio non è mai statofacile, ma questa volta devo farlo. Lei per certe coseè più bravo di me. E non voglio lusingarla, è la puraverità. Coraggio, vedrà che non succederà nulla emagari si divertirà pure.»Arturo era scosso ma si sentiva anche molto presen-te e lucido, e questo lo sorprese.
«Quando bevo più di un caffè al giorno soffro dicrisi tachicardiche. Se prendo questa roba mi scop-pierà il cuore.»«Le assicuro che non le può succedere nulla ecomunque gli allucinogeni non fanno aumentare le pulsazioni, distorcono la percezione della realtà. Epoi le ho detto che ci sarà un dottore. Coraggio, epensi a cosa dirà la sua Carlotta quando…»«Non è la mia Carlotta.»«Come vuole. Allora che facciamo? Andiamo?»Manfredi, con un grande sorriso ruffiano, facevadondolare la boccetta davanti gli occhi di Arturocome a volerlo ipnotizzare.
«Lei è davvero un figlio di puttana.»«Considerate tutte le volte che me lo sento dire nel-l’arco di una giornata, comincio a credere che siavero. Salga in macchina che intanto avviso il dotto-re.» Secondo Arturo il medico non aveva assolutamentela faccia da medico, e per questo lo guardava curio-so e preccupato.
Stimò che fosse alto un metro e mezzo o poco dipiù, e il suo peso, comprensivo di abiti e scarpe, nonsuperiore a quarantacinque chili.
Fiammetta notò anche che sembrava essere comple-tamente glabro, a parte due sottilissimi baffetti sottoil naso. Lo trovava davvero strano e, data la situa-zione, anche un po’ inquietante.
Mentre schiacciava la pompetta per provargli lapressione, il dottore discuteva i termini dell’accor-do con Manfredi.
«Se dopo questo pensi che io sia ancora in debitocon te per quella faccenda ti sbagli di grosso.»«Ti ho già spiegato che abbiamo azzerato tutti iconti, stai tranquillo» disse l’ispettore con tonolento e molto accondiscendente.
«Doveva essere così anche l’ultima volta che hoaiutato a far abortire quella ragazza. Invece guardache cosa mi fai fare ancora.»«Quella ragazza era stata stuprata, era clandestina estava per essere espulsa. Dovresti essere contento diaverla aiutata.»«Sì sì… sempre la stessa storia. Sei bravo con leparole come con il volante, tu. Un giorno quandomi arrabbierò veramente racconterò tutto a tuamoglie.»«Bravo, ottima mossa, e dato che è anche tua sorel-la potresti farlo durante la prossima cena di Natalecon la famiglia al completo. Perché privare di que-sto piacere anche i tuoi anziani genitori?»«Mi auguro almeno che tu abbia un minimo di ver-gogna per come usi le persone.»«Non sai quanto. Non si preoccupi Fiammetta, io emio cognato amiamo scherzare. Anche se a vederlonon sembra, è un ottimo medico.»Arturo non aveva ancora ben realizzato quello cheaveva accettato di fare e per combattere la crescen-te tensione cercava come al solito di escludere ognisuono. Fu richiamato dalla voce del medico.
«Allora, adesso verserò alcune gocce di questa sostanza in una soluzione salina per diluirla, dopodi che bagnerò questa garza che le applicherò sullabocca e sul naso. Appena percepirà la sensazionedella stoffa umida sulla pelle inspiri profondamen-te. Da un punto di vista fisico lei non corre alcunrischio, ma da un punto di vista psicologico lamente sarà trasferita in una dimensione di quasi tra-scendenza, al dosaggio somministrato. L’effettocompleto durerà una trentina di minuti dopo di chetornerà gradualmente, e lentamente, alla completanormalità. Ha qualche domanda?»«Posso non farlo?» Domandò come un condannatoa morte.
Manfredi si avvicinò all’orecchio di Arturo.
«Certo, ma non sarebbe meglio trovare quel bastar-do prima che lui trovi lei?»Arturo non ripose e si allungò sulla poltrona.
Il medico procedette e gli posizionò la stoffa sulviso raccomandandogli di rilassarsi.
Dopo una decina di minuti il dottore si avvicinò.
«Come va? Tutto bene?»«Per ora non sento nulla. Questa roba puzza di cara-melle al miele andate a male. Ispettore, credo che ilsuo amico con gli occhiali da sole l’abbia fregataper bene. Questa roba non funziona, coraggiolasciamo perdere e fatemi alzare.»Dicendo questo Arturo si osservò le mani. Per starepiù comodo, come da sua abitudine, aveva messo ipollici dentro i passanti dei pantaloni e con le dita si agrappava alla cintura. Improvvisamente si accorseche quella non era più la cintura di cuoio marroneche gli aveva regalato sua sorella per Natale, ma siera trasformata in una briglia….
.Piacenza, A.D. 1507La nebbia era talmente fitta da far apparire l’inte-ra città come immersa nel latte.
Il freddo pungente era reso ancor più insopportabi-le da un forte vento che da qualche giorno soffiavainclemente e continuo.
Arthur Fiamma Conte dei Fiammella, con un gran-de cappello nero ed un lungo mantello, stava per-correndo in sella al suo cavallo il lato della piazzache costeggia il Palazzo del Gonfaloniere.
La sua barba rossiccia era completamente bagnatadopo un’intera giornata di viaggio.
Non era mai stato a Piacenza prima, ma quel pocoche era riuscito ad intravedere pur nel fitto lenzuo-lo nebbioso, gli era piaciuto.
Da una piccola saccoccia di pelle estrasse una per-gamena indurita dal tempo e dal freddo.
Cercò di spiegarla prima che facesse troppo buio,per poter rileggere il nome preciso della personache doveva trovare alla locanda della Camicia. Alzò il capo e vide due finestre illuminate pocodistanti da lui. Il posto che stava cercando era pro-prio quello.
Una volta raggiunto smontò velocemente da caval-lo e per poco le gambe quasi congelate non cedet-
tero sotto il peso del suo corpo.
Spinse lentamente la porta e una folata di ariacalda e umida gli scaldò il cuore. Rimase per qual-che istante vicino al fuoco, dopodiché iniziò adosservare le persone all’interno della locanda. Dadietro il banco l’oste lo osservava curioso e indaga-tore. Si tolse il cappello e notò su un piccolo sop-palco due belle signore impegnate a fissarlo. Conun gesto del capo le salutò educatamente. Lorocontraccambiarono senza smettere di fissarlo. Vide,al centro della sala, un gruppetto di ragazzotti cheridevano forte. “Troppo giovani”, pensò.
Proprio mentre stava per sedersi in un tavolo libe-ro, vide un vecchio avvolto in un grande mantello,seduto in un angolo lontano dalla luce.
Si diresse verso di lui.
«Salve signore, posso sedermi?»«Salute, vuoi mangiare?» Chiese lui.
«Grazie, sì.»Il vecchio fece un gesto all’oste che arrivò con vinoe formaggio.
«Non vorrei che la già ben nota freddezza del popo-lo piacentino trovasse altri motivi di fama tra glistranieri.»Al vecchio scappò una forte risata che per un istan-te parve abbassare tutti gli altri rumori nella stan-za.
«Dimmi il tuo nome e da dove vieni, giovane.»«Arthur Fiamma Conte dei Fiammella, e credo voi
sappiate bene da dove vengo.»«Prova il nostro vino, è brusco quasi quanto ilnostro carattere.»Non se lo fece ripetere due volte e fece sparire metàboccale in due sorsi. Si pulì la bocca con la mani-ca e addentò il formaggio.
«Siete voi la persona che mi stava aspettando,vero?» Domandò masticando avidamente.
«Sì, e chi ti ha investito di tale gravoso compito tideve aver consegnato qualcosa per me.»Arthur Fiamma Conte dei Fiammella si staccòdalla cinta il sacchetto e controllando che nessunostesse spiando, lo passò nelle mani del vecchio dasotto il tavolo.
Il vecchio si alzò di scatto e puntò un dito ossutocontro Arthur, quasi volesse lanciargli un maleficio.
«Il mio nome è Federico, ma dovrai ricordati di mecome la Rana.»Detto questo uscì dalla locanda quasi correndo.
Una volta fuori scrollò il sacchetto sulla manodestra e tastò compiaciuto la sabbia che in esso eracontenuta.
Quel maledetto figlio di baldracca era stato diparola.
Il grande Cristoforo Colombo gli aveva mandato indono il pugno di sabbia che aveva stretto tra le ditail giorno del suo arrivo nel Nuovo Mondo. Un rega-lo prezioso per sdebitarsi con lui per quando venneaccolto povero e disperato. Rimise tutto nel sac-
chetto e uscì alla svelta, sparendo nella nebbia, conl’assoluta certezza che fosse stata mandata da Dioper aiutarlo a proteggere e nascondere quel tesoro.
Arthur, rimasto nella locanda, masticava il suo for-maggio ripensando a quello che gli era accaduto. Quella mattina quando smontò da cavallo per unabreve sosta il sacco gli si ruppe riversando tutta lasabbia al vento e a terra. Pensò saggio non avver-tire il vecchio del fatto, preferì quindi rimpiazzarela sabbia persa con dell’altra raccolta sul momen-to. In fondo, non si trattava di denari o pietre pre-ziose. Anche con un pugno di terra piacentinaFederico detto la Rana, avrebbe potuto fare lemedesime cose da vecchio pazzo.
L’aiuto di qualche leggero schiaffetto lo riportò allarealtà.
Ricominciava a mettere a fuoco la stanza e riconob-be lo sbuffo della pompetta che gli stava provandola pressione.
«Arturo, segua le mie dita… bravo, così. non leperda di vista. Ora le faccio una piccola iniezione, èsolo un tonico, non sentirà assolutamente nulla.»Manfredi impaziente si avvicinò cercando di incro-ciare lo sguardo di Artuto.
«Allora Fiammetta, si è divertito?»Arturo aveva la bocca impastata e la mascella indo-lenzita. Gli parve di sentire con la punta della lingua un dente scheggiato.
«Che ore sono?»«Il viaggetto è durato una ventina di minuti, comesi sente?»Riuscì a mettersi seduto sul divano e ad afferrare unbicchiere per bere un goccio d’acqua. «E’ stato pazzesco… sembrava tutto così reale. Madavvero non mi sono mai mosso da qui?»«E la sua serata non è ancora finita. Mentre lei gio-cava con quella roba ho ricevuto una chiamata: c’èstato un altro omicidio, al Farnese. Vada in bagno,si lavi la faccia e si svegli, la sua febbre del sabatosera non è ancora calata. Ah, Fiammetta, è conten-to?»«Da morire.»

Source: http://2.citynews-ilpiacenza.stgy.it/~media/18390838489377/re-citta-ristampa-copia-117-176-2.pdf

asti.cgiar.org

Department of Agricultural Research bOTSWANA RECENT DEVELOPMENTS IN PUBLIC AGRICULTURAL RESEARCH LONG-TERM INVESTMENT AND CAPACITY Key Trends Since 2000 PATTERNS IN PubLIC AGRICuLTuRAL R&D • Overall, agricultural research and development (R&D) spending rose rapidly in Botswana until 2007, after which it fell in response to spiraling inlation levels, which prompted

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D O I 1 0 . 1 1 1 1 / j . 1 3 6 5 - 2 1 3 3 . 2 0 0 7 . 0 8 2 8 6 . xEfficacy of tetracyclines in the treatment of acne vulgaris:a reviewT. Simonart, M. Dramaix* and V. De Maertelaer Department of Dermatology, Erasme University Hospital, 808 Route de Lennik, B-1070 Brussels, Belgium*Department of Biostatistics, School of Public Health, Universite´ Libre de Bruxelles, Brussels, Belgium Depart

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